Il preoccupante progetto del Kenya di diventare leader dei biocombustibili, con la consulenza di Eni

Fotomontaggio: piantagione di eucalipto con il logo Eni Fotomontaggio: piantagione di eucalipto con il logo Eni (© Rettet den Regenwald / Mathias Rittgerott)

14 ott 2021

Il Kenya mira a diventare leader nella produzione di biocarburanti e convertirà una raffineria in bioraffineria per produrre almeno 250.000 tonnellate di biocombustibili all’anno. La multinazionale italiana Eni, leader dei biocombustibili con olio di palma, ha proposto la sua consulenza. Oltre agli oli da cucina esausti (UCO), non è chiaro però quale altra materia prima vegetale si utilizzerà.

Il Kenya, nazione dell’Africa orientale, mira a diventare un paese leader nella produzione di biocarburanti. Il progetto implica la trasformazione dell’impianto Kenya Petroleum Refineries Limited nel primo grande hub di bioraffinazione dell'Africa. Si tratta di una raffineria di petrolio gestita dal governo a Mombasa ormai chiusa dal 2013. Secondo le autorità del Kenya, la conversione prevista dovrebbe ultimarsi in tre anni circa. La bioraffineria potrebbe produrre almeno 250.000 tonnellate di biocombustibile all’anno.

In questa operazione, le autorità keniote ed il personale della raffineria di Mombasa stanno trattando con Eni, la multinazionale che opera nel paese africano dal 2012 e che gestisce le due grandi bioraffinerie italiane a base di olio di palma di Marghera e Gela. Eni ha affermato che la sua consulenza mirerebbe all’ identificazione anche di centinaia di migliaia di ettari di territorio per implementare colture per produrre materie prime vegetali. Non è chiaro però, a parte l’uso degli oli esausti per uso alimentare (used cooking oil, UCO), a quale altra materia prima si riferisca e come verranno acquisite le migliaia di ettari da coltivare. Questo è un aspetto piuttosto preoccupante da chiarire.

Il Kenya non è nuovo a rincorrere il sogno di diventare leader nella produzione di biocarburanti. Nel 2000 infatti, aveva introdotto la jatropha (Jatropha curcus), proponendola come una coltura competitiva per la produzione di biocarburanti. Così non è stato. In ogni caso, per inseguire il suo ambizioso obiettivo, il governo keniota ha lasciato che compagnie private, spesso straniere, si appropriassero di terre agricole per fare spazio a migliaia di ettari di piantagioni di jatropha, il cui rendimento si è rivelato a dir poco scarso nel 90% dei casi. I contadini che hanno investito nel settore hanno poi perso i titoli di proprietà, e quando alcune delle grandi aziende, soprattutto straniere, che hanno implementato le piantagioni se ne sono andate, hanno portato con sé anche i titoli di proprietà dei contadini locali. Questo ha fatto si che centinaia di piccoli agricoltori siano rimasti senza lavoro e senza terra dove coltivare i loro prodotti di sussistenza.

Ma c’è di peggio. Secondo uno studio dell’organizzazione GRAIN, sulla relazione tra biocombustibili e furto di terre nel mondo, tra il 2002 e il 2012, diverse compagnie straniere interessate ad implementare piantagioni di jatropha hanno preso il controllo di quasi 500 mila ettari di terre in Kenya. Tra queste compagnie spicca anche la Kenya Jatropha Energy Ltd (KJE) una succursale dell’italiana Nuove Iniziative Industriali Srl.

Viste le dimensioni dei nefasti precedenti, il timore è che spinti dal miraggio di investire in un settore redditizio, altri piccoli agricoltori abbandonino la coltivazione di prodotti alimentari, come il caffè, optando per colture non alimentari per i biocombustibili, per poi vedersi sottrarre la loro terra non potendo competere con i requisiti e la produzione su larga scala delle grandi compagnie.

Il timore è che dopo la jatropha, oggi possano essere le sementi dell’albero di croton (Croton megalocarpus) ad attrarre gli investitori. Si tratta di una pianta autoctona del paese, che da frutti non commestibili, e che secondo alcuni rappresenterebbe un’alternativa alla palma da olio, per ovviare ai danni ambientali legati alla distruzione delle foreste tropicali. Noi abbiamo grossi dubbi in proposito, dato che per produrre centinaia di migliaia di tonnellate di biocombustibile non si può prescindere alla concentrazione di terre per implementare le piantagioni industriali.

Inoltre, abbiamo grossi dubbi riguardo all’uso degli UCO, come soluzione amica dell’ambiente per evitare di ricorrere all’olio di palma. Una soluzione che propone anche Eni, tra l’altro, che a suo dire non si avvarrà dell’olio di palma per il suo biodiesel a partire dal 2023.

Gli UCO prodotti con olio di palma sono di fatto una materia prima ammessa per produrre biocarburanti. Per questo, sarebbe in atto una frode nell’uso degli UCO, in Europa in particolare. L'alta domanda di UCO fa si che i prezzi di questa materia prima siano a volte più alti di quelli dell'olio di palma grezzo. Questo attira i truffatori. L'olio di palma grezzo viene aggiunto in grandi quantità agli UCO ed esportato poi in Europa. Questo è un affare redditizio, perché i biocarburanti prodotti dagli oli esausti sono promossi e commerciati doppiamente.

Ci auguriamo questo non avvenga per la bioraffineria del Kenya. In ogni caso continueremo a monitorare il caso.